Giornale del cibo
e delle tecniche
di vita materiale

Dealcolato sì, vino forse

Enoteca

Il 2025 dell’enogastronomia inizia con una nuova legge dal sapore rivoluzionario. Perché anche in Italia, finalmente, si potrà produrre un fermentato d’uva privo di alcol e che, purtroppo e per fortuna, si potrà chiamare vino. Detto questo va precisato che il suo avvento non salverà le patenti di nessuno, perché nelle carte dei ristoranti o sugli scaffali di enoteche e supermercati è già presente, e perché, in realtà, il nuovo codice della strada non ha modificato il limite legale di alcol, ma ha solo inasprito le sanzioni. Al di là calici e verbali, il vino dealcolato prodotto in Italia è una buona notizia, perché offre un’opportunità in più, sia a chi non consuma alcolici, che a quei produttori che vogliono ampliare la propria offerta o a quelli che invece un buon vino non riescono a farlo: perché se fosse tale non verrebbe privato della sua anima. Non a caso, e con qualche mugugno, dalla legge sono giustamente esclusi i vini Igt, Doc e Docg. D’altronde, a parte il chiamarlo vino, decisione corretta nella sostanza (commerciale) ma non nella forma, il grande passo che il dealcolato deve compiere è quello qualitativo, soprattutto se il suo sapore deve, in un qualche modo, ricordare quello del vino vero. Dettaglio che ora è piuttosto lontano e forse non sarà mai raggiungibile. A maggior ragione se la sua produzione deve essere vissuta come una sorta di scappatoia incurante della qualità. Dunque, prima di poter iniziare a bere un dealcolato in grado di sostenere la parola ‘vino’ bisognerà aspettare che qualcuno, come a esempio Martin Foradori Hofstätter, decida di programmare la produzione a partire dai vigneti, perché togliere l’alcol e basta non è sufficiente, almeno a sud delle Alpi e a ovest del Reno.

© Riproduzione riservata